In treno dall’India all’Italia

Venti d'amore pag 119

(estratto da Venti d’amore)

Sette ore di viaggio in treno davanti a me. In India questi viaggi non mi preoccupano ancora. In realtà dopo l’Africa – con le 30 ore in autobus tra Kigali e Nairobi oppure le ventiquattro di sterrato per lasciare di corsa la Karamoja di notte – non mi preoccupa più nessun viaggio. E poi sto in India, i trasporti sono più comodi, almeno finora è ciò che ho sperimentato, nell’angolino che ho visitato di questo Continente di un miliardo e mezzo di abitanti.

Salgo sul treno e sorpresa: avevo letto Air Conditioning sul biglietto fatto on line, chissà che credevo. Pensavo di poter scrivere qualcosa al pc tranquillo e… isolato, come quando sono in viaggio in treno per andare in missione a Salerno. O quando andavo a Milano in aereo per lavoro. O quando mi capita di prendere la metropolitana a Roma. In buona compagnia di isolati attorno a me.

Isolato. Questo il termine più adatto, anche per me, italiano. Anche se quasi non dormo la notte per pensare, pregare, meditare su come aiutare le persone ad uscire da tante difficoltà di relazione, che portano sofferenze dentro e fuori. Sì, vedo anche in me, sotto sotto, una abitudine all’isolamento, che credo sia comune dalle nostre parti. Pare che anch’ io abbia introiettato il virus.

Qui che in questi due mesi non ho fatto altro che sentire persone che dicono “non so con chi parlare“, “non ho relazione con nessuno“, “non posso dire queste cose a mio marito, ai miei amici, no no, nessuno mi capisce“. Nell’India meravigliosa, che ho scoperto soffrire di un profondo isolamento, con radici molto lunghe; un’India, simile a come si è ridotta l’Italia di oggi. Ebbene tra questi indiani oggi sono io, l’Italiano, l’isolato. Alla ricerca del mio quadratino di sicurezza, il mio telefono con cui fuggire da dove sono, il mio PC con cui comunicare, oppure – allargando lo sguardo – il mio panino che non condivido, oppure il mio suolo che non condivido, il mio benessere che difendo[1].

Invece qui, nonostante i problemi che ho descritto sopra, c’è un rumore nello scompartimento, un brusio, un movimento. Tutti a parlare! Sembrano una comitiva! Non si conoscono e parlano, discutono, ridono, mi danno una mano ad infilare le borse sotto ai sedili, mi fanno domande, poi ritornano ai loro argomenti. Quello che era appisolato sul suo sedile, si siede meglio e si inserisce nella conversazione.

Ma insomma… chi è che ha problemi di relazione? Loro o io? Mamma che ennesima lezione che sto ricevendo. Ero convinto di poter viaggiare indisturbato. No, qui è come in Africa, il viaggio è una festa, anche in questa India sofferente, spesso indifferente, che ho visto nei villaggi, per le relazioni e le mancanze d’amore, secolari e profondissime divisioni di casta.

Anche qui, sembrano meglio di noi italiani, almeno meglio di me in questo momento di sindrome da “orso tecnologico”. E penso alle persone che ho incontrato. La gioia di avermi in casa loro anche solo per un minuto, la visita a sorpresa a casa di Nagamani, che accompagno a casa in moto. «Entra dai». Senza una telefonata una settimana prima per mettersi d’accordo. Senza il citofono per annunciare la mia visita…due minuti, un saluto un dolcetto e via. Noi a Roma coi vicini di casa ci parliamo al telefono (!)… e se uno suona, anziché farlo entrare e offrirgli un tè o un caffè, gli parlo sulla porta perché ho sempre da fare. Chi è lo strano? Chi è lo straniero? Sì, direi, aiutiamoli a casa loro. Gli italiani.

– pag 119-120

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